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Strage, apocalisse ed ecatombe sono parole ormai usuali per descrivere l’impatto previsto del COVID-19 nell’Africa Sub-Sahariana. Il giornalismo più corrivo ne fa uso per elettrizzare i suoi lettori. Le ragioni di queste previsioni sono intuitive: povertà, megalopoli fatte di slums, alta prevalenza dell’HIV nella popolazione, fragilità dei sistemi sanitari; ed è solo una parte della lista. Il mix della catastrofe è pronto per essere servito, non resta che attendere l’arrivo del fiammifero (il virus) e osservare l’incendio: che brucerà tutto.

Il SARSCoVresposanbile di COVID-19, diversamente dai coronavirus della SARS e della MERS, è arrivato in Africa Sub-Sahariana e adesso abbiamo un po’ di numeri che ci permettono qualche osservazione. Dal 13 di Marzo ho raccolto dal sito worldometers.info/coronavirus/ i dati relativi alla regione africana a Sud del Sahara (nella quale sono incluse anche alcune isole dell’Oceano Indiano, oltre al Madagascar). I dati – casi, decessi e test eseguiti per COVID-19 – sono stati rilevati alle 7 di mattina, ora italiana. L’ultimo aggiornamento è il 12.04.2020

I casi di COVID in Africa sub-sahariana sono passati da 37 a 7.968, i decessi (comparsi il 22.03) sono passati da 6 a 179. Trasformati in tassi di incidenza e di mortalità specifica e riferiti al totale della popolazione sub-continentale, circa 1 miliardo, sono rispettivamente 8 per milione e 0,2 per milione. I tassi globali delle notificazioni sono rispettivamente 228 per milione e 14 per milione. Il paese in questo momento più colpito (la Spagna) riporta rispettivamente 3.500 e 355 per milione.

 

L’Africa sub-sahariana notifica al di sotto dell’1% dei casi mondiali: 0,45% di casi e 0,16% di decessi. Il tasso di letalità dei casi africani è stabilmente attorno al 2%. Dal 27.03 a oggi l’incremento medio di casi (includendo decessi) è stato di 370 casi/giorno, con importanti oscillazioni. All’interno del subcontinente si sono delineati e mantenuti paesi con maggiori notificazioni (rilevamento del 12.04):

Sudafrica = 2.028

Camerun = 820

Costa d’Avorio = 533

Niger = 491

Burkina Faso = 484

Ghana = 408

… tutti gli altri meno di 400 casi.

I cluster di decessi sono così localizzati:

Burkina Faso = 27

Sudafrica = 25

DRC (Repubblica Democratica del Congo, Congo-Kinshasa) = 20

Camerun = 12

Niger = 11

… tutti gli altri meno di 10 decessi.

Ben 15 paesi – alcuni con grosse popolazioni come Uganda e Mozambico – non hanno ancora notificato decessi.

C’è una conclusione da questa presentazione? Solo questa: la capacità di questi numeri di riflettere l’effettivo andamento della pandemia in Africa a Sud del Sahara è estremamente dubbia. Questo problema rispecchia la debolezza dei sistemi informativi di quasi tutto il subcontinente, in particolare la loro bassa copertura e qualità. Sono soprattutto limitati – forse con l’eccezione del Sudafrica e, sembra, del Ghana e di Mauritius – dalla rete laboratoristica in grado di eseguire il test per COVID-19, montata per ora principalmente nelle città capitali (nella DRC, 80 milioni di abitanti, l’unico laboratorio è a Kinshasa e l’invio di campioni dalle provincie ha difficoltà insormontabili; la stessa situazione si ripete per tutti i paesi di grandi dimensioni). Sono anche limitati dalla disponibilità di reagenti e dall’efficienza dei laboratori (numero di esami eseguiti/giorno). Con simili premesse la sotto-notificazione è sicura.

Il vero problema è che non abbiamo idea del livello di sotto-notificazione, cioè dei casi clinici reali (decessi inclusi) né dei portatori asintomatici. Possiamo solo dire che stando ai dati ufficiali – dopo un mese di propagazione – la pandemia non è nell’Africa a Sud del Sahara di magnitudine comparabile a quella vissuta nei punti caldi (Cina, Iran, Unione Europea e USA). A titolo di esempio, i dati del sub-continente in numeri assoluti (e non in tassi, che sono enormemente inferiori) corrispondono nel loro insieme a quelli di piccoli paesi come la Norvegia o l’Irlanda, che hanno popolazioni attorno ai 5 milioni di abitanti e sono poco colpiti dalla pandemia in rapporto alla media UE.

L’interpretazione di tutto questo va cercata in tre fattori:

  • sotto-notificazione severa;
  • svolgimento più lento dell’epidemia;
  • minor incidenza “reale” di casi e decessi rispetto ad altre aree del pianeta, a parità di durata dell’epidemia, per peculiarità del contesto africano.

Non sappiamo se con il tempo ci sarà un miglioramento della notificazione, ad esempio incrementando la disponibilità di test, la rete di laboratori e la logistica. Solo in questo caso i dati ufficiali cominceranno la loro lenta marcia di avvicinamento alla realtà. L’esperienza dell’UE mostra comunque che anche con sistemi informativi collaudati i dati ufficiali sono controversi per scarsa standardizzazione. È prudente assumere che per molto tempo ci sarà una forte distanza tra i dati ufficiali e la situazione reale della pandemia. Restano aperti, senza una chiara risposta, tutti gli scenari. Non è possibile fondare speranze su questi numeri, ma neppure enunciare catastrofi a cuor leggero.

Ci sono comunque riflessioni che possono prescindere dai numeri.

  1. La lista di fattori protettivi e sfavorevoli per le popolazioni del subcontinente di fronte alla COVID-19 è lunga e solo in parte nota. A favore: la struttura demografica caratterizzata da una popolazione giovane meno esposta alle forme gravi di infezione, la dispersione nel territorio e la bassa mobilità di una buona percentuale di abitanti, fattori ambientali come temperatura, umidità e radiazione UV (fattori possibili), e altri fattori di tipo per ora speculativo o oggetto di ricerca, come costituzione genetica, immunizzazione crociata, ruolo del BCG, etc. Sfavorevoli: la malnutrizione ancora diffusa, circa 25 milioni di persone HIV + di cui la metà non in trattamento, la debolezza dei sistemi sanitari, l’enorme densità di popolazione e le condizioni di degrado degli slums, si pensi all’acqua! Per non parlare dei milioni di africani che vivono in campi profughi o in condizioni di precarietà a causa di conflitti. Come si combinerà questo mix di fattori nessuno lo sa. Ce lo diranno i numeri di casi e decessi quando l’epidemia si renderà visibile. Ora non lo é.
  2. Forse è meglio essere prudenti su previsioni apocalittiche. Già per due volte è stato recitato il De profundis per l’Africa sub-sahariana: in occasione della crisi-AIDS negli anni ’80-90 e più recentemente nella crisi-Ebola in Africa Occidentale. Chi si ricorda, sa che anche da fonti autorevoli sono stati sparati numeri grossi, poi non confermati dai fatti. Il continente non si è disintegrato passando per queste prove, alcuni paesi hanno anzi mostrato una sorprendente capacità di rinascita (caso del Rwanda). Per quanto riguarda l’AIDS, i numeri hanno subito col tempo un ridimensionamento rispetto alle proiezioni iniziali, forse dettate a quel tempo da troppo zelo di advocacy e aid industry. L’AIDS resta un fardello immenso per vari paesi africani. Ma fardelli ben più gravi e spesso tenuti sotto silenzio sono per questi stessi paesi il debito, la corruzione, i conflitti armati, la criminalità organizzata internazionale, l’inadeguatezza delle élites e la loro collusione con le multinazionali e faccendieri dei paesi ricchi.
  3. In una fase di oscurità sull’andamento dell’epidemia non dovremmo basarci solo sui numeri ufficiali o su ricerche epidemiologiche di terreno. Al momento esse non sembrano praticabili, per quanto preziosissime. Anche il giornalismo – quello vero – può apportare elementi utili. Ad esempio, una morte per insufficienza respiratoria da COVID-19 è un evento molto drammatico. Spaventoso per il paziente e insostenibile per i familiari. Un aumento clamoroso di “morti respiratorie acute” con le caratteristiche che abbiamo visto in Lombardia – si pensi all’Ospedale di Bergamo – verrebbe immediatamente rilevato dalla popolazione (vittima) e dai mezzi di informazione. Al momento di scrivere queste note non c’é notizia di cluster di simili casi, neppure nelle megalopoli di Lagos, Kinshasa e Luanda. Resta da vedere se lo stesso ragionamento è valido nelle zone periferiche e rurali, da dove l’informazione arriva con maggiore difficoltà; o può essere occultata per ragioni di tipo politico.
  4. Dovremmo anche raccogliere informazioni dai contatti personali che abbiamo nel sub-continente: occidentali che hanno deciso di restare e africani con cui dialoghiamo sul web per amicizia e ragioni professionali. Sono spesso insider con grande capacità di visione e analisi, anche quando il loro orizzonte è limitato a contesti locali.
  5. Al momento (fino a quando?), l’impatto dell’epidemia in Africa a Sud del Sahara non è dovuto a casi e decessi da COVID-19, ma alle misure restrittive introdotte al fine di controllare il contagio. Queste misure sono cadute su una popolazione che per il 30% si sveglia la mattina nell’incertezza di potersi alimentare nell’arco della giornata. Essa vive adesso sotto un grande stress, perché da un giorno per l’altro è stata messa in causa la sua sussistenza, che richiede grande mobilità, più assai che per paura di una malattia  sconosciuta, dalla trasmissione insidiosa e che si confonde con altre. Il malessere popolare è anzi aumentato da questo senso di vaghezza del quadro morboso, dalla ventilata alta mortalità, che però adesso avviene in paesi ricchi; nonché dall’irrompere improvviso di questo problema. Il pericolo è che questo disagio esploda in forme di ribellismo di fronte a poteri pubblici delegittimati, conducendo a convulsioni e disgregazioni sociali ben più mortifere di COVID.
  6. Le classi dirigenti africane, anche per forte pressione delle élites urbane (di cui fanno parte), hanno assunto pienamente il modello del Nord del Mondo di gestione della crisi, basato su misure restrittive di graduale intensità fino al cosiddetto livello 4, lockdown (Sudafrica). Ma non è chiaro se hanno valutato bene i costi sociali di questa pressione, e l’effettiva capacità di imporla, così come la capacità dei governi di prestar soccorso alle popolazioni povere che dovrebbero star chiuse in casa in attesa che passi la tempesta. Hanno anche accettato con scarso senso critico il “razionale” di questo modello: rallentare la progressione epidemica per non travolgere il sistema curativo. Ma in Africa a Sud del Sahara non esiste alcun sistema curativo capace di far fronte a un’onda di piena di insufficienze respiratorie acute. Come e più che in Europa – dove ormai per mancanza di risorse si selezionano i malati da intubare secondo le probabilità di farcela – l’eventuale pressione epidemica dovrà essere fronteggiata con cure domiciliari in regime di automedicazione supervisionata. Solo una parte di malati trarrà vantaggio da oculate ospedalizzazioni, per infezioni di media gravità e complicazioni che possono essere trattate con semplici misure di supporto. Quanto ai casi gravi di polmonite interstiziale – non resta che il ricorso esplicito a cure palliative (sedazione profonda). Non c’è alcuno spazio nel sub-continente per l’introduzione massiva e in tempi brevi di ventilatori e assistenza respiratoria invasiva. Un paese come il Mozambico, e non è il caso peggiore, ha a disposizione 34 letti rianimazione per oltre 30 milioni di abitanti. L’Italia, ed è uno dei paesi in maggiore difficoltà nell’UE, ne dispone di circa 5.000 per una popolazione doppia … cioé ha 73 volte maggiore disponibilità di questa risorsa. Ciononostante i migliori ospedali italiani sono stati schiacciati dalla pressione dei casi COVID.
  7. Purtroppo la crisi-COVID-19 offre opportunità per retro-pensieri politici. Alcune élites africane – come nel nostro emisfero il signor Viktor Orbán – hanno accolto giubilanti alcuni modelli rigidi di restrizione, perché vi hanno visto la possibilità di accoppiare misure di salute pubblica con il bavaglio all’opposizione e alla società civile. Si pensi alla tematica della “divulgazione di notizie false”. In contesti autoritari e di democrazia di facciata non ci vuol nulla a trasformare una raccomandazione etico-professionale ai giornalisti in misure di censura e repressione per persone, gruppi e movimenti scomodi. E ben oltre l’ambito del COVID-19.
  8. Invece di imporre modelli è meglio lasciare alle popolazioni africane e a coloro che le rappresentano il modo di affrontare – con il pragmatismo, i compromessi, la creatività e la formidabile resilienza che hanno mostrato in altri momenti – questa sfida. La relativa “arretratezza” di molte società africane (maggior legame con la terra, minore dipendenza della tecnologia e dalla specializzazione etc.) può essere in questa circostanza un punto di forza. Almeno il 90% dei cittadini UE morirebbero di fame se non ci fossero i supermercati aperti a poche centinaia di metri da casa, solo per fare un esempio. Dove è possibile un aiuto in tempi brevi, questo è nel migliorare la diagnosi per capire cosa sta effettivamente succedendo, e nel proteggere il personale locale, scarso e prezioso. Se viene falciato dall’epidemia per decessi e assenteismo, si creerà un circolo vizioso senza ritorno. Più avanti si potrà anche dare una mano in prima linea e rafforzare le file di chi presta assistenza. Più ancora che di aiuto sanitario, che verrà probabilmente contratto a seguito della futura recessione, l’Africa a Sud del Sahara avrà bisogno di aiuto indiretto sotto forma di cancellamento del debito o nuove normative di commercio internazionale, che tutelino la sua capacità produttiva e di esportazione.
  9. Infine, proprio sulla base dell’esperienza italiana, non dimentichiamo la mortalità indiretta da COVID-19. Da noi cancri, infarti e strokes non sono entrati in sciopero di protesta per l’arrivo del virus dalla città di Wuhan. Vengono però affrontati in condizioni più difficili e con standard in altri tempi non accettabili, dalla tempistica alle procedure. Spesso con frustrazioni e dilemmi morali per il personale sanitario. In Africa sud-sahariana il rischio è che la nuova emergenza risucchi verso di sé risorse di ogni tipo da patologie di alta mortalità, e – diversamente da quella da coronavirus – ben trattabili e in parte prevenibili: malaria, infezioni batteriche, tubercolosi, AIDS, patologia ostetrica, malattie prevenibili con vaccinazione … Ne discende che ogni “aiuto” – se e quando potrà essere dato con i tempi duri che stanno davanti – deve andare alla tenuta del sistema nell’insieme e non principalmente al braccio di ferro col COVID. Quello, fino a quando non arriveranno farmaci e vaccini, lasciamolo al braccio degli africani. É più robusto del nostro.

Ringrazio Maurizio Murru, Sandro Colombo, Claudio Beltramello e Marcello Vettorazzi per critiche e suggerimenti, che ho fatto miei incorporandoli nel testo.

Articolo scritto da: Rino Scuccato, medico.

Find the original paper here: https://www.saluteinternazionale.info/2020/04/apocalisse-a-sud-del-sahara/

 

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